Anchorage, Alaska
Kerikov sbatté la cornetta sulla base dell’apparecchio con tanta violenza che quell’elegante esempio di design si spaccò in due, con le due metà unite solo da qualche filo elettrico. Ben lungi dall’essersi sfogato, afferrò tutto l’apparecchio e lo lanciò contro la parete opposta della sua lussuosa camera d’albergo. Il telefono si disintegrò contro le robuste pannellature di rovere. In preda alla follia, attraversò la stanza come una furia e sbriciolò i resti del telefono sotto i piedi, conficcando i frammenti nella moquette fino a sentire i pezzetti appuntiti bucargli le suole e pungergli le piante dei piedi. Il cuore gli batteva all’impazzata e ansimava, la fronte era madida di sudore.
Si voltò per guardare fuori dalla finestra panoramica che dava sulla città più grande di tutta l’Alaska. Occupava la suite sotto a quella dedicata al capitano Cook, all’Anchorage Holiday Inn, arbitrariamente considerato il miglior hotel della città. Era lì solo da poche ore, appena tornato dall’interrogatorio di Howard Small in California, ma aveva già avuto modo di apprezzare la vista sulle cime innevate della Brooks Range e la visione del monte McKinley in una delle sue rare apparizioni dietro una spessa coltre di nuvole. Tra la città e le montagne si snodavano i nastri neri delle piste della base aerea di Elmendorf.
Appena era entrato nella stanza Kerikov aveva visto gli aerei radar AWACS che decollavano dalla base, con l’inconfondibile piatto dell’antenna montato sul dorso della fusoliera, come se gli ingegneri ci avessero pensato a cose fatte. Guardando un aereo sospeso nel cielo, con il quadrimotore che lasciava una densa scia di fumo scuro, Kerikov si chiese perché gli americani si preoccupassero tanto: ormai non c’era più niente da spiare.
Rimase in piedi a osservare la scena per parecchio tempo, concentrandosi per calmare il respiro, sgombrare la mente e cercare di tenere a bada le emozioni. Era consapevole di aver appena avuto un “attacco”, un momento in cui il pensiero cosciente si azzerava per lasciare campo libero a emozioni primordiali. Aveva perso il controllo delle sue azioni e la sua mente aveva escluso qualsiasi nozione delle possibili conseguenze di ciò che faceva. Erano episodi quasi sempre violenti, la cui frequenza e durata stavano aumentando in modo preoccupante. Erano iniziati dopo che gli era stato affidato l’incarico di condurre gli interrogatori per il KGB in Afghanistan, ma all’inizio duravano una frazione di secondo e si verificavano ogni due o tre mesi.
All’epoca pensava che fossero causati dallo stress e da quella guerra impossibile da vincere, combattuta nella più stomachevole delle trincee. Durante la fase conclusiva della guerra i momenti di black-out duravano un’intera giornata, e a volte quando si riprendeva era in una zona diversa del paese, senza sapere né come né perché ci fosse finito. Quando il conflitto era ormai concluso gli episodi erano spariti. Nel periodo successivo, quando l’Unione Sovietica aveva ritirato le sue truppe macchiandosi di un’onta simile a quella degli americani all’epoca del ritiro da Saigon, Kerikov non ebbe più attacchi per qualche anno. Se ne era quasi dimenticato. Poi, alla fine degli anni ottanta si ripresentarono. La sua carriera all’interno del KGB era ormai priva di senso, gli stati satellite dell’Unione Sovietica venivano riformati e occidentalizzati uno dopo l’altro e la sua Rodina venne travolta dall’onda del capitalismo. Gli attacchi si ripresentarono con una durata e un’intensità che aumentavano in modo esponenziale. Alla fine degli anni novanta, durante quei momenti di furiosa cecità, morirono diversi uomini. Negli ultimi mesi che aveva passato in Russia, dopo uno di quei raptus si era trovato davanti quattro suoi collaboratori morti. Erano seduti attorno a un tavolo, sgozzati. Non ricordava né le azioni che aveva compiuto né come avesse potuto tenere a bada gli uomini mentre tagliava la gola ai loro colleghi.
Consapevole di essere reduce da un altro tuffo nel baratro di violenza della sua mente, Kerikov si voltò di scatto per controllare se la sua ira selvaggia non avesse fatto un'altra vittima. Il suo ospite, un giovane universitario dalla corporatura esile, vestito con jeans e dolcevita neri, lo guardava con occhi acquosi e offuscati da lenti spesse, esterrefatto per la scena a cui aveva appena assistito.
Nascondendo il suo sollievo nel vedere che il giovane americano era ancora vivo, Ivan Kerikov riattraversò la stanza e si versò tre dita di scotch in un pesante bicchiere. Ignorò il ghiaccio e lo trangugiò liscio, lasciando che l’alcool gli graffiasse le viscere come l’artiglio di una belva. Rimise il bicchiere sul tavolino, avendo cura di riposizionarlo perfettamente sul cerchio sottile lasciato dal liquore colato fuori dal bicchiere. Quel piccolo rituale era un modo per inseguire l’ordine che non riusciva a creare nei meandri della sua mente.
Si alzò in piedi e guardò il ragazzo dall’alto, tenendo le braccia incrociate sul petto e assumendo una postura più minacciosa che se gli avesse agitato in aria il suo pugno massiccio. Parlò con voce chiara e ben modulata, ricacciando temporaneamente le sue emozioni dietro una maschera di imperturbabilità. “Per colpa dell’incompetenza di qualcuno il tuo compito sarà molto più complicato.”
Ted Mossey non disse una parola. Stava appollaiato sul bordo di una poltrona come un uccellino spaventato che non vede l’ora di spiccare il volo e andarsene.
“Quello era il mio contatto a Washington” disse facendo un cenno con la testa in direzione del telefono fracassato. “Per ben due volte abbiamo fallito il tentativo di fermare un avversario che ora passerà all’attacco. Lo conosco molto bene e so che l’unica possibilità che abbiamo è quella di accelerare la nostra tabella di marcia. Dovrai essere pronto tra quarantotto ore, altrimenti saremo costretti ad abbandonare il progetto.”
“No!” Per la rabbia Mossey irrigidì il corpo, indurendo i tratti del mento sfuggente.
Ted Mossey aveva un viso triangolare, col mento a punta e le guance tondeggianti. Era praticamente privo di zigomi cosicché il suo volto sembrava scivolare su se stesso. Solo il naso, minuto e deciso, aggiungeva un po’ di carattere. Gli occhiali erano appoggiati su orecchie smisuratamente a sventola semi-nascoste sotto i capelli biondi e cadenti. La pelle era butterata da cicatrici rossicce, e l’acne continuava a perseguitarlo impietosamente anche se era quasi un uomo fatto. Ma a Kerikov il suo aspetto non interessava. Lo aveva accolto sotto la tenda del ‘Fiume Nero di Caronte’ perché era un virtuoso dei computer.
Poteva eseguire il debug di un programma mentre ne scriveva un altro, lavorava con due tastiere, una per ciascuna mano, essendo ambidestro. I suoi occhi guizzavano da un monitor all’altro così velocemente che per chiunque altro le immagini si sarebbero fuse in una sola. Era il genio del generatore 3-D usato nell’ultima generazione di videogiochi e aveva sviluppato un programma di dati geometrici a cascata talmente evoluto che, per girare, avrebbe dovuto aspettare computer cento volte più veloci di quelli attuali.
Ma c’era un altro aspetto che lo rendeva interessante agli occhi di Kerikov e che lo distingueva da tutti gli altri giovinastri fissati con l’informatica che l’America sfornava a un ritmo impressionante. Sebbene molti dei candidati visti da Kerikov disponessero delle competenze che gli servivano, solo Mossey aveva il requisito che faceva di lui una recluta facile. Mossey era un ambientalista sfegatato, un ecoterrorista che usava le sue capacità per mandare a gambe all’aria le industrie del legname, quelle minerarie e quelle pesanti. A differenza di molti ambientalisti che sembravano più interessati alla pubblicità che ai risultati, Mossey preferiva lavorare nell’ombra, distruggendo le reti informatiche e causando milioni di dollari di danni a tutti quelli che riteneva essere responsabili della distruzione del pianeta. Quando Kerikov avvicinò Mossey e gli illustrò brevemente i principi su cui si basava il ‘Fiume Nero di Caronte’, il giovane americano quasi lo implorò di farlo partecipare al progetto.
“Non permetterò che succeda” disse Mossey rabbioso. “È troppo importante. Posso farcela in quarantotto ore, non c’è problema.”
Kerikov colse il tono da spaccone nella voce di Mossey. Non voleva rassicurazioni, voleva la verità, quindi parlò con tono accusatorio. “Non sarai di turno al terminal per i prossimi tre giorni e io ti sto chiedendo di essere lì tra due giorni. Come fai a dire che ce la farai?”
“Semplice. Quando mi hanno affidato il lavoro di programmatore ad Alyeska ho inserito un virus nel loro sistema che interromperà la comunicazione tra le postazioni di lavoro e il mainframe. Nessuno potrà usare il suo computer. Posso sguinzagliare il virus dal mio computer di casa e bloccare tutti i computer dell’Alaska Pipeline. Siccome negli ultimi mesi mi hanno affidato il ruolo di responsabile informatico interno, mi chiameranno per risolvere il problema e rimettere on-line il sistema.” Quando parlava di informatica Ted acquistava un’autorevolezza che faceva dimenticare il suo aspetto un po’ sfigato.
“E non si accorgeranno che qualcuno è entrato nel sistema da fuori?”
Facendosi coraggio, Mossey scosse la testa davanti a quel dichiarato insulto alle sue capacità. “Ho già cancellato il backtrack dei sottoprogrammi, non troveranno traccia di contatti con l’esterno.”
“Se le cose stanno così, non puoi inizializzare il mio programma primario nel mainframe dal tuo computer?”. La domanda era pertinente: nonostante gli sfuggissero tutte le sottigliezze del linguaggio degli hacker, stava considerando la possibilità di evitare il rischio di piazzare Mossey all’interno del terminal di Alyeska.
“Te l’ho già spiegato” sospirò Mossey. “Il tuo programma era nascosto nel nucleo del computer quando c’è stato l’upgrade del 1986. Poi il tuo programmatore lo ha incorporato nel mainframe e ha reso impossibile l’attivazione da qualsiasi luogo che non fosse la stanza del server a Valdez. In quel modo, nessuno sarebbe mai potuto incappare nel programma da un desktop qualsiasi o infiltrandosi nel sistema. Ha fatto in modo che fosse impossibile scoprirlo e allo stesso tempo che fosse molto difficile entrarci. Il mio programma per cancellare le tracce è un gioco da ragazzi in confronto al sistema di protezione messo a punto dal tuo tecnico.”
Kerikov capì che non c’era alternativa e che Mossey doveva entrare nella stanza del server a Valdez, per poter inizializzare i programmi installati più di dieci anni prima da uno dei suoi migliori agenti. Il sabotaggio informatico era l’unica fase operativa del ‘Fiume Nero di Caronte’ che Kerikov aveva messo a punto prima del crollo dell’Unione Sovietica. Da allora in poi il resto era stato solo opera sua, con il sostegno finanziario di Hasaan bin-Rufti e di pochi altri. Per sottrarre il progetto al KGB gli era bastato entrare in possesso dei codici di accesso.
“Quando pensi di poterli isolare e quindi di presentarti al terminal?” chiese Kerikov, sentendo già il profumo della vittoria. Philip Mercer poteva anche essere vivo e vegeto, ma non c’era niente che avrebbe potuto fare per fermare Kerikov una volta avviato il programma.
“Più o meno quattro ore dopo che sarò arrivato al mio appartamento di Valdez. Quando congelerò il sistema, nel giro di pochi minuti mi chiameranno, e da lì mi ci vorrà qualche ora per riuscire a fa partire il tuo programma.”
“Splendido. Voglio che torni a Valdez stasera stessa, ma non bloccare la rete fino a che non ti chiamo io. Ci vorranno al massimo ventiquattro ore, forse trentasei. È chiaro?”
“Sì, certo, ma perché aspettare?”
“L’inizializzazione del mio programma è solo una fase dell’intera operazione, ce ne sono altre di cui tu non sei al corrente. Devo essere sicuro che quando ci impossesseremo del sistema sarà tutto pronto.” Kerikov non aveva l’abitudine di dare spiegazioni sui suoi ordini.
Kerikov non aspettò che Mossey se ne andasse e si spostò nella sua stanza da letto. Il telefono della camera era l’unico che funzionasse. Mentre digitava un numero interno per raggiungere Abu Alam due piani più sotto, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il pacchetto di sigarette e l’accendino.
“Sì?” rispose Alam.
“Partiamo tra un paio d’ore. C’è stata una piccola complicazione. Quelli di Washington hanno mancato il bersaglio.”
“Mercer è ancora vivo?” Nonostante la sua instabilità mentale, Alam era sufficientemente professionale da riuscire a fare le domande giuste.
“Sì, e invece di riprovarci ho deciso di farlo venire in Alaska e poi attirarlo in una caccia alla cieca. Lo sistemeremo in un secondo momento. Per essere sicuri che verrà dobbiamo tornare a Homer. Fai il pieno, ci vediamo nell’atrio.” Kerikov guardò l’orologio e aggiunse: “Alle dieci.”
“Armati?” Persino Alam rispettava le leggi americane e viaggiava con il suo amato fucile semi-automatico SPAS-12 solo se era necessario.
“Sì. Porteremo con noi anche i miei uomini.” Kerikov aveva bisogno dei nervi saldi delle sue due guardie tedesche, più che dei brutali banditi arabi di Alam. A differenza di quegli ex agenti della Stasi che avevano fatto degenerare l’interrogatorio del pescatore e di suo figlio, i suoi due uomini erano ben addestrati e disciplinati, e per il lavoretto che dovevano sbrigare quella sera era necessaria la loro professionalità. Chiuse la telefonata e fece subito un altro numero.
La voce che rispose disse bruscamente: “Non posso parlare, stiamo ancora caricando” e riattaccò.
Kerikov guardò l’apparecchio muto per un istante, ma dato che lo scopo della telefonata era per l’appunto farsi dire dal suo agente a che punto erano, era comunque soddisfatto. Fece un’altra chiamata, ignorando il fuso orario e senza preoccuparsi di svegliare chi stava all’altro capo del filo.
Dopo qualche squillo rispose una voce assonnata: “Pronto”.
“Hai fallito di nuovo. Mercer è ancora vivo.” Kerikov percepì che l’uomo era balzato fuori dal letto all’istante.
“Non è possibile, ho mandato il mio uomo migliore. Non mi ha mai deluso.”
“Uno dei miei vecchi contatti di Washington mi ha appena chiamato dal quartiere dove vive Mercer: ci sono decine di poliziotti attorno alla casa e ha visto Mercer parlare con Dick Henna in persona.”
“Chi altro c’era?”
“Che importanza ha? Mercer è vivo e tu mi hai fregato due volte. La tua inettitudine è intollerabile.” Kerikov lasciò cadere nel vuoto quell’ultima frase.
“Domani sarà morto, dovessi ucciderlo con le mia mani.”
“Non dire cazzate” ringhiò Kerikov. “Adesso è sotto la protezione dell’FBI. L’unico modo che abbiamo per fermarlo è attirarlo in Alaska dove potrò occuparmi di lui personalmente. Ho un vecchio conto in sospeso.”
“Cosa vuoi che faccia?”
“Per ora niente. È tutto a posto con Rufti?”
“Ci ho parlato stasera. Dice che Khalid Al-Khuddari è sospettoso, ma mi ha assicurato che lui è pronto a colpire prima che Khuddari si renda conto di quanto è seria la minaccia che incombe sulla famiglia reale.”
“E le armi?”
“Sono stivate sulla Petromax Arabia, che è all’ancora ad Abu Dhabi per un’ispezione fuori programma della manutenzione, come avevi programmato tu.”
Mentre parlava la voce dell’uomo si fece più sicura. “L’Arctica dovrebbe lasciare Valdez da qui a un paio d’ore, quindi tutto procede regolarmente. Anche se Mercer è ancora vivo, non c’è modo di arrestare il processo che abbiamo innescato. Non preoccuparti, Ivan, nel giro di un paio di giorni le ultime fonti di greggio nazionale americano diventeranno inaccessibili, i prezzi raddoppieranno e la geografia del Medio Oriente dovrà essere ridisegnata. E stavolta non ci sarà nessuno in grado di fare marcia indietro. Ognuno di noi tre avrà quello che desidera: tu i tuoi soldi, io i miei guadagni e Rufti il suo paese.”
“Ci crederò solo quando sarà tutto finito. L’arroganza ha sconfitto uomini ben più potenti di te” disse Kerikov in tono di rimprovero prima di farsi più pensieroso.
“Rufti mi preoccupa, non riesco a credere che quel grassone abbia le palle o il cervello per riuscire a fare la sua parte in questa operazione. E se sbaglia, verrà a galla tutta la manovra.”
“Ci sarà tempo a sufficienza perché tu riesca a sviare Khuddari?” chiese il socio di Kerikov.
“No, ed è proprio quello che mi preoccupa. Ho anticipato tutto di un giorno rispetto al programma, non c’è nient’altro che possiamo fare. Temo che Rufti dovrà cavarsela da solo fino a quando sarà tutto finito.” Kerikov represse la sua rabbia. In passato avrebbe semplicemente mandato un sicario a uccidere Khuddari per fermare quella mina vagante, ma ora non aveva più il potere per farlo.
“Conosco Hasaan Rufti da più tempo di te, e anch’io mi ero fatto trarre in inganno dalla sua debolezza per il cibo e avevo pensato che fosse indice di una ben più profonda debolezza interiore. Khuddari è un tipo difficile, ma Rufti è sufficientemente avido e scaltro da riuscire a sbarazzarsi di lui senza porsi il problema né di quanto costa né di chi ne fa le spese. È totalmente privo di senso morale. Hai conosciuto il suo lacchè, Abu Alam. Beh, Rufti è due volte più malato e dieci volte più pericoloso di lui. In ogni caso, domani ci parlerò di nuovo e gli farò presente la tua preoccupazione.”
“Mi stai dicendo che sa che io e te lavoriamo insieme?” tuonò Kerikov, mentre il panico gli faceva andare il sangue alla testa rendendolo paonazzo.
“Certo che no” lo tranquillizzò prontamente il complice. Gli dirò che sono io a essere preoccupato, stai tranquillo, Ivan. Non sa assolutamente niente dei nostri accordi.”
“Non mandare tutto a puttane, altrimenti giuro che la morte ti sembrerà un sollievo rispetto a quello che ti farò passare.” Buttò giù il telefono con un gesto rabbioso, rischiando un arresto cardiaco per l’atteggiamento da gradasso del suo interlocutore.
Gli era già successo di trovarsi a un passo dal traguardo e di vedersi strappare di mano le sue glorie per colpa dell’avidità e a causa dell’entrata in scena di Philip Mercer.
Accese un’altra sigaretta per calmare i suoi nervi fragili. Aveva solo pochi minuti prima di incontrarsi con Alam e con i suoi due agenti per partire per Homer. Dopo aver seminato delle false tracce per Mercer sarebbe potuto tornare a concentrarsi completamente sulle fasi successive e portare a compimento il ‘Fiume Nero di Caronte’.
Prima di lasciare la suite doveva fare un’ultima telefonata. Gli ci volle un po’ di tempo per prendere la linea perché il segnale doveva rimbalzare su un satellite orbitante e poi essere convertito in frequenza marina.
Rispose una voce di donna.
“Hope?” chiese lui.
“Sì” trillò lei con voce allegra.
“Sono Ivan Kerikov. Di’ al tuo capo che stiamo anticipando il colpo di ventiquattro ore. Assicurati che sia tutto pronto. Se avete delle domande, mi metterò di nuovo in contatto domani mattina.”